ANCONACULTURAIN PRIMO PIANO

Nello Bolognini ha raccolto in un volume l’intera opera poetica di Anna Elisa De Gregorio

Nello Bolognini ha raccolto in un volume l’intera opera poetica di Anna Elisa De Gregorio

di LORENZO SPURIO

ANCONA – Appena un paio di anni fa Nello Bolognini, marito della compianta poetessa Anna Elisa De Gregorio (1942-2020), ha deciso di raccogliere in un unico volume l’intera opera poetica della moglie.

Alessandro Fo nella prefazione – un prezioso testo che porta il titolo di “Il lume della soglia: la poesia di Anna Elisa De Gregorio” – scrive: “Il passo è quello delicato del sogno, ma i contorni sono chiari, i temi e gli oggetti affiorano da una realtà ordinaria alla portata di tutti ogni giorno” (7).

Nel corposo volume di ben 426 pagine particolare attenzione merita la produzione in dialetto di Anna Elisa De Gregorio, rappresentata da due lavori: Corde de tempo (Campanotto, Udine, 2013)

e ‘Na giungla de cartó (Cofine, Roma, 2020). Ed è di questo che intendo parlare in questi brevi paragrafi perché è nelle poesie in dialetto, in maniera peculiare, che riaffiorano con grande vividezza e forza espressiva i ricordi di un passato lieto, quello vissuto a contatto con i nonni, quello dei giochi e della vita tendenzialmente libera e spensierata.

L’infanzia, interpretabile come il gioco dell’un, due, tre stella a cui dedica un’affettuosa lirica che appartiene a questo procedimento di “recupero”, è senz’altro calzante ed esemplificativa. È, questa, solo una delle tante immagini di un’età precedente, indelebilmente impresse nella mente e nel cuore della Nostra che contribuiscono, come singoli fili, a intrecciarsi per formare quelle Corde de tempo a cui il titolo della prima raccolta in dialetto rimanda. Un’immagine – come spesso accade nel dettato popolare – assai concreta, emblema di un mondo vissuto nella sua praticità e ordinarietà, capace, però, di rimandare a tutto un inventario di emozioni, incontri, circostanze situate in quel contesto della memoria. Quella della “corda”, nel particolare, è una metafora di grande concretezza: in essa è riscontrabile il lavorio continuo del tempo, l’attitudine dell’umano nel creare, nel costruire. L’intersezione dei fili – che sono i singoli momenti – produce un intreccio che contribuisce a dare saldezza al manufatto che è la corda e, analogicamente, la vita stessa.

L’opera della Nostra è da smiciare (“guardare”, appunto, nel vernacolo dorico) nel profondo, che attraversa la totalità delle fasi dell’uomo: dall’infanzia dei giochi e della scoperta del mondo, dove tutto è in grado di affascinare l’individuo (“Le stele de l’infanzia / ene sempre tropo grose, / […] Trasfurmate in luciole / per fase tené en pugno”, 201-202) nella vecchia casa dove anche le ombre hanno lasciato il loro odore, alla ben più problematica pubertà (“È cuscì che comincia / l’adulescenza: ‘n viagio / sulitario de alberi / che fugene in avanti”, 215), consapevole sempre più, nell’età matura, dell’aspetto vulnerabile e transeunte dell’umano alle prese con pensieri di finitudine (“io col tempo mio ristreto”, 211). Pensieri, questi, che non sono vissuti in maniera angosciosa o con timore ma che, al contrario, l’Autrice verga sulla carta con una lieta rilassatezza. Non è un caso che, anche nella produzione in lingua, il tema della vecchiaia – soprattutto nei tempi più recenti, ritorni spesso a diventare quasi un leitmotiv dominante: si veda la poesia “Che fanno i vecchi tutto il giorno” con dedica a Mark Strand ma anche “Storia di un trasloco” che porta, quale sottotitolo, “Un condominio di vecchi”.

Le tematiche del tempo che avanza, la forza dei ricordi e della necessità di recupero e di rivitalizzazione di tutto quel mondo apparentemente sommerso dello ieri personale e familiare rappresentano, nella poesia della Nostra, delle pietre miliari in tutta l’attività poetica, ispiratrice, creatrice e produttiva.

Nella poesia “Corde de tempo”, che fornisce il titolo all’omonima raccolta, il pensiero della transeunte condizione dell’uomo, a dispetto del mondo oggettuale che sopravvive all’uomo, fornisce un quadro riflessivo dai toni agrodolci mediante una definizione per sottrazione che fa meditare: “ciane più lunga vita / i fili pî pagni / de chi l’ha streti / ai paleti ‘ntel bagno / […] pr ultime a sfinisse / sarà le corde. / Lì ‘n mezzo, sfugita, / resta st’idea” (234-235).

‘Na giunga de cartò, la successiva silloge in dialetto anconitano, prosegue sulla medesima strada di tematiche e concetti ma, a differenza della precedente, allarga il discorso alla dimensione sociale. La riflessione che scaturisce dalla condizione dello stato attuale dell’uomo inserito nella collettività del gruppo non è molto felice ma al contempo è una disanima puntuale e congrua su ciò in cui viviamo: “Cuntamo meno del dó de picche, / ‘ntuna filusufia più grande, / e pogo avemo capito del mondo: / sapemo fa puesie, / ma non sapemo vive” (379). Le considerazioni della Nostra, che sembrano tranchant hanno, al contrario, un ricco fondamento di riflessioni, analisi, vedute sul mondo contemporaneo. Il dialetto quale codice linguistico si mostra assai congeniale in questa tipologia di liriche.

Un omaggio a Jan Palach, martire nella resistenza antisovietica che decise di darsi fuoco a Praga nel 1969, è contenuto nella poesia “Dó vele” ispirata all’esigenza di “memoria de ‘n ragazo / de libertà brugiato” (383). Riflettendo, la De Gregorio annota: “L’eroe mòre da solo, / ‘l fumo va ‘n cerca del cèlo” (383).

Di Ancona non c’è solo il vernacolo nelle poesie della De Gregorio, ci sono anche gli spazi peculiari e distintivi (‘l còle del Domo, / ch’apare sopro la staziò / co’ l’aria de ‘n custode”, CDT, 219), lo sguardo che digrada verso l’Adriatico che la corteggia (“Ma basta che me giro oltr’i pitòsfori, / e, ‘ntel core d’Ancona, vedo sbate ‘l mare”, NGDC, 397) e le zone ad essa prossime, care, nella frequentazione, alla Poetessa (“Quand’è qûla cert’ora / e j umbreloni è chiusi / e la spiagia se svòta / e pòi sentì ‘l zilenzio, / propiu qûla luce sopro Numana / se fa rosa, rampigata sul monte, / che pare ‘n cà a la cucia”, NGDC, 200).

Alla terza sezione di ‘Na giungla de cartó (silloge con diritto di stampa perché vincitrice al prestigioso Premio Nazionale di poesia in dialetto “Città di Ischitella – Pietro Giannone” nel 2020), dal titolo “Drent ‘a ‘n obló”, appartiene la poesia (una delle più belle in assoluto) “‘Na dumanda”, nella quale la Poetessa (ancora una volta) riflette sul poco tempo avuto a sua disposizione per prendersi cura degli amati genitori, del poco tempo che la vita ha dato lei di occuparsene come avrebbe desiderato: “Nun me l’avé dato ‘l tempo, / nisciuno de dó, de prende cunfidenza / né cu la vecchiaia, né cu la morte. / Ve sé mesi d’accordo d’andà via, / tut’e dó, de gran prescia. / Come ve la perdóno st’eredità?” (44).

Se il passato ha la forma di ombre che riappaiono di continuo nel presente della Nostra, momenti d’un’altra età che riaffiorano ad occupare le stanze del vissuto, rimane un quesito insondabile: dove, essi, risiedono? Dove (e come) sono contenuti? Ed ecco la domanda-ricerca continua della Poetessa che, assidua, cerca di affrontare il dilemma antico: “da per loro i ricordi / ‘ndó se tàca?” (CDT, 229).

Ag – RIPRODUZIONE RISERVATA - www.laltrogiornale.it