La pittrice Cristina Messora elabora a Senigallia nuove idee per le sue opere
La pittrice Cristina Messora elabora a Senigallia nuove idee per le sue opere
di ANDREA CARNEVALI
SENIGALLIA – Dopo l’inaugurazione della mostra “Divergenze di stile”, la pittrice Cristina Messora ha scelto di essere più vicina alla Fondazione A.R.C.A. conducendo un laboratorio per bambini. Il luogo dove l’artista lavorerà, insieme ai ragazzini, è quello dello Biblioteca speciale. Lo SpazioArte, tuttavia, rimarrà aperto, così si potranno vedere le ultime opere dell’artista, dedicate a Senigallia.
Per comprendere il linguaggio informale di Cristina Messora e per interpretare la sua poetica, ci sarà di aiuto parlare con lei. Questa breve intervista ha proprio questo scopo: conoscere l’artista.
Salve Cristina, sempre al lavoro?
Certo! Sto elaborando nuove idee.
Da dove nascono i soggetti dei tuoi quadri?
Molti soggetti dei miei quadri, si ispirano ad episodi vissuti nell’infanzia, concatenati ad altri cronologicamente successivi, attraverso un filo conduttore affettivo-emotivo che diventa narrazione.
…mi puoi fare un esempio?
Nelle opere del ciclo “Narratio in charta” esposto a Macerata attraverso la Memoria, ho dato un ordine al mio mondo interiore, sublimando poi il Ricordo attraverso l’astrazione.
Non riesco a capire…il ricordo!!
Rappresentare un ricordo, porta a ripercorrerlo nella mente, a riviverlo. Nel processo di astrazione che io compio, ciò che anima il quadro è lo stato emozionale, trasposto in una sorta di alfabeto composto da segni, solchi…
Si può parlare di realtà trasfigurata?
Sì. Gli oggetti concreti, che talvolta introduco nell’opera, consentono al ricordo di riaffiorare più volte, pur trovandosi sospesi nell’aria intrisa di colore, come in un’immagine onirica.
Qual è il tuo approccio al foglio bianco?
Per dedicarmi alla pittura, ho dovuto imparare concretamente ad organizzarmi, superando lo stereotipo che non concederebbe questo spazio a una donna con famiglia e lavoro. Il tempo, per così dire “rubato“ al quotidiano, all’interno dello studio si dilata enormemente, ripagandomi degli sforzi necessari per conciliare gli impegni. Una volta uscita dallo studio, avverto la sensazione di essere stata partecipe di un’esperienza di simultaneità di passato presente e futuro.
Qual è la tecnica utilizzata?
Utilizzo vari tipi di carta, saggiandola con le mani e riconoscendola per la capacità di assorbenza del colore. Strappandola lentamente, per ottenere le forme desiderate, essa produce un suono e la gestualità delle mani riconduce ad un ambiente ludico che mi tranquillizza e mi distende. Giuliano Della Casa, pittore di origini modenesi e professore di disegno, mi ha trasmesso questo amore per la carta che utilizzava in grandi rotoli, su cui lasciava segni e pennellate estremamente essenziali. Utilizzo poi, velature di colore ad olio, tecnica appresa da mio padre nell’infanzia, che ho in seguito “personalizzato”. Negli ultimi anni di Accademia, all’interno del laboratorio di incisione ho “sperimentato” e ho trasceso i dettami di una tecnica rigorosa, che richiede precisione e concentrazione, salvando il segno inciso che ho trasferito sulla carta.
Quando consideri conclusa la tua opera?
L’opera realizzata deve rispecchiare l’idea iniziale, vale a dire che osservandola, il significante è rappresentato ed io lo riconosco come espresso.
…è coerente?
La coerenza per me significa rimanere fedele a me stessa e a ciò che voglio rappresentare.
Dove e quando nasce il tuo desiderio di dipingere?
Ho trascorso poco tempo con mio padre, per motivi di lavoro infatti, trascorreva molte ore fuori casa e ciò che di lui mi affascinava maggiormente, riguardava l’approccio alla pittura. Dipingeva di notte, nel silenzio della casa, come terapia contro l’insonnia. Al mattino, recandomi nella sala da pranzo, potevo guardare il frutto della sua veglia e cercare di interpretarlo.
… e che cosa facevi?
La “contemplazione” mi appagava di un dialogo, quello con lui, nella realtà pressoché inesistente ed inconsapevolmente mi ha avviato all’apprendimento del linguaggio artistico.
C’è l’espressione di un dolore nel tuo lavoro?
Ho iniziato a dipingere con una certa regolarità nel 2006, per dare voce a ciò che stavo vivendo e nei quadri di quel periodo vi sono elementi che possono essere letti come inquietanti segni di un dolore. Non sono però gli unici elementi del quadro, ad essi in senso dialettico fanno riscontro: punti d luce, linee ascensionali, tacchettate di bianco, indici di un desiderio di superamento del vissuto che fa male.
E nelle ultime opere?
Con il tempo i miei elementi caratteristici hanno preso il sopravvento e hanno cominciato a dialogare, a dirigersi verso un’energia più pura, vivo quindi i miei quadri come uno slancio verso la speranza e la gioia.
Sono non solo il luogo della catarsi, ma anche il punto da cui tutto può iniziare, uno slancio verso il futuro.
Hai parlato di sentimento dell’abbandono e di superamento di superamento del dolore. Che cosa intendi?
L’espressione artistica, con la particolarità del suo linguaggio lo rappresenta per così dire in codice. Terminato un quadro mi sento bene, generalmente provo gioia ed un senso di sollievo, poiché ciò che vedo è la parte interiore di me che si è ritrovata, che ha saputo andare oltre quel sentimento.
Qual è il limite?
L’infinito è per me uno spazio senza tempo, in perfetta equilibrio con l’ambiente, la mente “si ferma” smette di razionalizzare, ed emerge una condizione vitale di serenità di appartenenza ad un tutto più grande, dove i ricordi e vissuti si alleggeriscono.
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