«Parlavano di me»: la malattia del mondo nei racconti di Giuseppe Grattacaso
«Parlavano di me»: la malattia del mondo nei racconti di Giuseppe Grattacaso
Sono stati presentati al Centro Studi Mario Luzi di Montemaggiore al Metauro
di PAOLO MARIA ROCCO
MONTEMAGGIORE AL METAURO – «È come se si parlasse di sé, di noi. Devo dire infatti qualcosa, preliminarmente, a proposito del titolo di questo libro. Mi è accaduto, come avviene spesso quando si scrive, di avere scoperto solo in un secondo momento, così come mi è stato fatto notare anche da alcuni lettori, che il titolo che ho scelto di dare a questo libro – omonimo a quello di uno dei racconti che lo compongono – può conservare un ulteriore significato.
“Parlavano di me” giunge come un invito all’investimento personale nella narrazione: il lettore è indotto a provare una immedesimazione repentina nel contenuto dei racconti perché essi… dicono, parlano di me, appunto, in queste storie di vita quotidiana sottratte all’oblio grazie a uno scarto dalla norma, a un pensiero, a un gesto, a un significativo per quanto piccolo evento privato che squarcia la quotidianità e ci introduce nel segreto delle cose, nel loro mistero e nell’anima di chi li agisce». Si è aperta con le parole dell’Autore, Giuseppe Grattacaso, invitato il 14 Aprile scorso dal Centro Studi Mario Luzi a Montemaggiore al Metauro, la presentazione del suo ultimo libro: una raccolta di racconti dal titolo “Parlavano di me” (Effigi Edizioni), terza opera preceduta da “Confidenze da un luogo famigliare” e da “La vita dei bicchieri e delle stelle”, raccolte di poesie edite rispettivamente nel 2010 e nel 2013 da Campanotto di Udine. Grattacaso, salernitano di nascita pistoiese d’adozione, non è nuovo, quindi, alla Patria delle Lettere, e lo ha sottolineato l’introduzione di Katia Migliori, responsabile del Centro Studi, quando ha affermato che «noi tutti salutiamo con estremo piacere questo esordio nel genere del racconto di Giuseppe Grattacaso che abbiamo già conosciuto e apprezzato per le sue opere in versi.
Oggi, invece, Grattacaso ci porta a riscoprire un genere letterario di grande importanza nella Letteratura perché è nella narrazione di breve ampiezza che si misura la qualità di prosatore di un Autore: nella sua capacità non solo di raccontare una storia ma di far emergere in pochi tratti di penna lo spessore dei fatti narrati e, soprattutto, quello dei personaggi insieme al rapporto che essi intrecciano con la vita di ognuno. Una sintesi ben riuscita in questo libro che ci consegna uno scrittore completo ma, di più, un testimone che con delicatezza e maestria ci porta nell’intimità della nostra esistenza, nei gesti e nell’autenticità del quotidiano spogliato degli alibi che, spesso, ne mascherano la verità. Ed è proprio vero, quindi, che il titolo, come dice lo stesso Grattacaso, interpreta, se possiamo dire così, il sentimento, raro, di sentirci nell’immanenza delle cose». Nove racconti che convincono anche per la loro non sottaciuta critica ad un certo modo di intendere la vita. In Hippopotamidae, primo dei racconti, ne scopriamo il senso: non c’è solo la storia dell’inserviente di uno zoo, ma quella di un padre, come si scopre nella lettura, di un bambino disabile dalla nascita, e il cui lavoro condotto a tu per tu con animali più o meno esotici corrisponde al percorso di un’anima dolente e offesa dalla vita verso la conquista di una condizione di personale comunione con i moventi profondi dell’esistenza. Consapevole che seppure è costretto, in questa nuova stazione del suo tragitto, a “spalare letame dalle gabbie degli animali” cercando “di non pestare gli escrementi” alla fine risulta impossibile rimanere immuni dalla sporcizia, dal sudiciume: “Ho capito che è tutto inutile. Non c’è riparo alla merda (…)”.
Il marcio accumulato nelle gabbie è quello stesso –ci vuole far intendere l’Autore- dei microcosmi esistenziali di quegli individui (ma, generalmente di ciascuno) che, inconsapevoli o no, vivono nella propria tana, più o meno attrezzata, separati dal resto del mondo da barriere a volte insormontabili: “Anche noi uomini –riflette il protagonista- non siamo più capaci di vivere in natura, siamo di fatto estinti per la natura (…) anche noi siamo protetti e chiusi in gabbie e recinti (…)”.
Il tema centrale del racconto, però, non è –come parrebbe- quello dell’analisi cruda dei limiti di chi vive da animale braccato e in cattività in una comunità che ne determina la condizione infelice: c’è una originale corrispondenza nel tentativo dell’uomo di riscattarsi, proprio come quello, impossibile, degli animali dello zoo che non sanno che le loro urla mattutine “i loro messaggi non saranno raccolti da nessuno (…) aspettano delle risposte che non arriveranno”.
Anche l’uomo urla la propria prigionia e contro di essa per recidere le catene: nel protagonista di Hippopotamidae questo grido che si leva ad ogni riga dello scritto è non solo la cifra di una interrogazione interiore ma anche l’esito non compiacente (non c’è un finale lieto) dopo l’avventura nella vita, una vita che imbroglia, una vita che gli ha sottratto anche la moglie (suicida, sopraffatta dal dolore e dall’incapacità di trovare risposte), ma gli ha consegnato un figlio che nella sua esistenza fatta esclusivamente di pochi e cauti movimenti manifesta che l’atto di volontà può sottrarre alla malattia; proprio come il gesto discreto e timoroso del bambino che, alla fine, prende per mano, per un interminabile secondo, il padre. È intorno al tema della malattia del mondo e degli uomini che lo abitano che scorre, si può dire, la narrazione di “Parlavano di me”: ed è un bel leggere, sì, di uomini, di donne, di figure tratte dalle esperienze quotidiane e le quali trovano, alla fine, se non una ragione una risposta alla propria ignavia eletta a norma di vita e, a volte, umana.
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